In quasi un quarto di secolo di gare offshore ha cambiato tanti nomi e tanti sponsor, ma per tutti, a cominciare dal suo progettista, resta il “Cesa”. Nella sua carriera ha vinto due titoli mondiali di Classe 1, un Campionato Apba Usa, la Miami-Nassau e per ben due volte la Cowes-Torquay, all’inizio e alla fine della sua straordinaria carriera. Raccontare la storia di questa barca è il miglior modo per celebrare il genio di Fabio Buzzi.

È giusto pensare che una barca come il “Cesa” resterà unica nella storia dell’offshore: nata all’avanguardia e poi continuamente sviluppata dal suo progettista, l’ingegner Fabio Buzzi da Annone Brianza, in provincia di Lecco, che l’ha trasformata in un’autentica icona dell’offshore mondiale.
Tutti sappiamo come la grande passione di Fabio Buzzi per la motonautica, e l'offshore in particolare, l'abbiamo portato lo scorso anno al tragico incidente nella laguna veneta, dopo aver stabilito l'ennesimo record da Montecarlo a Venezia. Raccontare la storia di questo suo autentico capolavoro diventa quindi il modo migliore per rendergli omaggio.

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1986: il debutto

Eppure gli inizi non furono propriamente entusiasmanti. A volere il “Rolly Go”, questo il nome della barca al suo varo nonché il primo sponsor, fu Len Bylock, un “freddo svedese dagli occhi di ghiaccio” (per usare la descrizione di Buzzi). Nel 1985 si era laureato campione mondiale della classe 3E e voleva fare il grande salto in Classe 1 con una barca vincente. La proposta di Buzzi fu un monocarena di 13,20 metri, largo 2,80 con trasmissione a eliche di superficie Trimax (brevetto dello stesso Buzzi) e quattro turbodiesel Aifo Iveco 8061 identificati dalla sigla Red, che stava a significare che il mago delle preparazioni Romeo Ferraris aveva “spremuto” dai loro 5,9 litri di cilindrata circa 550 cv. In totale facevano 2.200 cv su uno scafo di circa sette tonnellate per sfiorare il muro delle 100 mph, oltre 150 km/h, che per quei tempi era una velocità impensabile per un monocarena. Oltretutto la colorazione rossa e la grande ala ne facevano una della principali attrazioni su tutti i campi di gara: di fronte agli arrembanti catamarani, così i monoscafi erano di nuovo riusciti a conquistare il centro della scena. Tutto questo, oltre alle risultanze dei test effettuati, facevano del “Rolly Go” uno dei candidati alla vittoria in Classe 1. Questa era infatti la ferma convinzione di Len Bylock e Fabio Buzzi che lo portarono al debutto nella stagione 1986.

“Era una barca bellissima e vincente, - ci aveva raccontato qualche anno fa Fabio Buzzi - peccato che a ogni gara si spaccava sempre l’albero a gomiti di qualche motore. Come mai gli affidabilissimi Aifo erano diventati così fragili? Molto semplice, Romeo Ferraris a furia di pompare cavalli era arrivato al capolinea. Aumentando comburente e combustibile avevamo ottenuto una grande potenza, ma con una pressione di combustione così alta che il pistone riusciva a spaccare l’albero a gomito e più di una volta abbiamo trovato bielle e colli d’oca in sentina”.

Così fu un susseguirsi di partenze brucianti seguite da altrettanti ritiri, con la sola eccezione della Cowes-Torquay dove finalmente il “Rolly Go” conquistò la sua prima e unica vittoria della stagione nella gara d’andata valida per il Campionato europeo, ma ruppe un’elica al ritorno scivolando in terza posizione nella classifica per somma di tempi.

Era necessaria una svolta tecnica. I 5.900 cc degli Aifo Red non erano più sufficienti, per vincere occorreva arrivare al limite della cilindrata consentito dal regolamento e così, alla fine della stagione 1987, arriva la prima vittoria con quattro nuovi Seatek turbodiesel di 8,2 litri per circa 700 cv l’uno. La barca si chiama “Luchaire”, ma è solo una breve parentesi perché per la stagione 1988 è già pronta la livrea “Cesa 1882” e un nuovo equipaggio: al fianco di Fabio Buzzi ci sono Giorgio Villa e Romeo Ferraris.

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Il mito del “Cesa”

Fu l’inizio di una stagione trionfale, che spiega perché nell’immaginario collettivo questa barca è stata sempre ricordata come “Cesa”, anche se ha cambiato altri cinque sponsor e relative livree. Alla prima gara del 1988 l’attesa è alle stelle, l’offshore si sta affermando come uno sport motoristico in grande espansione e i pronostici prevedono un campionato italiano ed europeo aperto a molte soluzioni, tra un nugolo di catamarani sempre più agguerriti e i monocarena che puntano sul mare mosso. Quanto poi ai mondiali sono in programma su tre prove a Guernsey, nel canale della Manica, e lì c’è da vedersela con gli inglesi da sempre padri di questa specialità.

Tutto lascia prevedere un campionato all’insegna dell’incertezza, niente di più sbagliato: il “Cesa 1882” vince dominando alla media di 82 mph la prima prova e poi prosegue con questo ruolino di marcia facendo suo sia il titolo tricolore che quello continentale.
Per il mondiale, al posto di Romeo Ferraris viene imbarcato Dag Pike, giornalista inglese compagno di Buzzi in tante gare e profondo conoscitore delle insidie del canale della Manica. Non sappiamo se fosse anche una mossa per farsi benvolere dalla giuria inglese che notoriamente non ama molto gli equipaggi “esteri”. Se così è stato non ha sortito un gran effetto, perché alla prima gara il “Cesa 1882” vince ma viene penalizzato di cinque minuti per partenza anticipata. Poco male perché comunque il vantaggio sul secondo classificato si riduce a “soli” sette minuti e rotti ma la vittoria è comunque sua!
Le altre due gare sono un monologo e l’equipaggio italiano è matematicamente campione del mondo senza neppure aspettare la terza prova.

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L’era Casiraghi

A Guernsey Fabio Buzzi conosce Stefano Casiraghi. A presentarli è il comune amico Vittorio Gancia che propone di sostenere una trasferta del “Cesa”, per l’occasione ribattezzato “Gancia dei Gancia”, alla World Cup di Key West, che per gli americani della APBA è il “loro” Campionato del mondo. Così in Florida il monocarena di Annone Brianza si presenta con la nuova livrea e Stefano Casiraghi, marito di Caroline di Monaco e grande protagonista delle cronache mondane, è al volante al fianco di Fabio Buzzi e Romeo Ferraris.
A contrastarlo i Superboat americani a quattro motori a benzina e 60’ di lunghezza, sia monocarena sia catamarani. Ricordo ancora i risolini ironici del pubblico quando la barca di Casiraghi è passata davanti alle tribune con la sua classica andatura “caracollante” (da qui la grande ala con fini stabilizzanti). Subito rientrati già al primo passaggio della gara che vedeva il “Gancia dei Gancia” nettamente al comando e così per quelli successivi e per tutte le tre gare. Ma non era finita: non contenti Casiragi, Buzzi e Ferraris si iscrivevano anche alla Miami-Nassau, la più mitica della gare offshore Usa, vincendola. La trionfale stagione 1988 del “Cesa” era completata.

L’anno successivo, il 1989, confermata la livrea “Gancia dei Gancia” e con l’equipaggio Stefano Casiraghi, Romeo Ferraris e Patrice Innocenti, la barca è seconda nell’Europeo e poi riattraversa l’oceano per partecipare ai mondiali in programma ad Atlantic City.
Prima prova con mare mosso e vittoria facile del “Gancia dei Gancia” che è però squalificato per un salto di boa. La seconda gara viene annullata per il maltempo e, nella terza, è ancora Casiraghi a vincere con una media migliore dell’americano Mach primo in gara 1 e costretto al ritiro nella terza. “Cesa” entra così nella storia come l’unica barca ad aver vinto due titoli mondiali di seguito e si aggiudica definitivamente il Sam Griffith Trophy, la Coppa Rimet della motonautica d’altura.

La decadenza

Il 1990 porta una rivoluzione regolamentare che penalizza le motorizzazioni turbodiesel: il “Cesa” non può più correre in Classe 1 e quindi si dedica all’endurance partecipando alla prima edizione della Venezia-Montecarlo con il nome di “Tecno”: vince tutte le tappe tranne la prima dove è rallentato dalla rottura di una trasmissione che lo relega al terzo posto assoluto all’arrivo nel Principato.
Un giapponese si innamora della barca e la vuole per correre tra i Superboat statunitensi, la ribattezza “Super Hawaii”, la rivernicia di bianco e ne decreta di fatto la fine.

Qualche anno dopo la barca viene comprata da un americano che cerca di trasformarla da crociera con due soli motori, cercando di ricavarci una cabina e tagliando i supporti dell’alettone. Tentativo abbandonato a metà, lasciando il “Cesa” in disarmo in un capannone della Florida, finché un inglese, Drew Langdon, fan di Buzzi e delle sue barche, non la scovò e la comprò per poche centinaia di dollari. L’idea era di rimontarci due Seatek e correre in P1. Ma lo scafo era troppo pesante e il consiglio di Buzzi fu di restaurarlo e metterlo nel museo ad Annone Brianza.

Il ritorno vincente

Ma la sfida è dietro l’angolo e si chiama Giro d’Inghilterra 2008, la gara che Buzzi aveva già vinto con un altro monocarena a quattro motori, il “White Iveco” nel 1984.
Per raccogliere questa sfida il “Cesa” cambia motori e nome: quattro fiammanti FPT (Fiat Powertrain Technologies, ndr) da 600 hp l’uno lo fanno volare a oltre 110 mph. È di nuovo una barca invincibile e lo fa ritornando alle origini, infatti gli FPT di Fiat Powertrain sono i nipoti degli Aifo Iveco delle origini.

La barca si chiama “Red FPT” ma evidentemente nella grandi corse a tappe la prima frazione risulta sempre fatale. Questa volta la causa del ritiro è un errore della barca giuria che fa transitare i concorrenti in dislocamento su un muro sommerso che trancia le trasmissioni degli scafi più pesanti e “Red FPT” è tra questi. Per la cronaca il massacrante giro sarà vinto da “Blu FPT”, bimotore più recente sempre progettato e costruito dalla FB Design di Fabio Buzzi, come dire una sorta di… nipotino.

Ma la rivincita è proprio dietro l’angolo ed è costituita dalla Cowes-Torquay che fu proprio la prima vittoria del “Cesa” nel 1986, ben 22 anni prima. “Red FPT” vince alle media record di 91 mph davanti a un lotto di 40 scafi molti dei quali agguerritissimi.
Nella più importante e classica gara offshore del mondo trionfa una barca di 22 anni con un pilota, Fabio Buzzi, di 65 anni. Un record ma anche una dura condanna di tutta la motonautica d’altura che non ha solo perso la sfida tecnologica ma, un po’, anche la faccia.

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