Nonostante il successo delle gare nella storia motonautica, le barche all’inizio del Novecento sono ancora poco potenti, pesanti e soprattutto lente, ma la nautica promette di diventare popolare e allora la ricerca…

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Storia della motonautica/1. L’affascinate storia degli albori della moto-nautica

Storia della motonautica/2. Non c’è motonautica senza competizione: subito le prime gare

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I cruiser lenti che avevano dato vita alle prime gare in mare restarono i mezzi più diffusi in un mercato che, soprattutto negli Stati Uniti, cominciava a potersi definire tale. È del 1908 il primo salone nautico di New York, nel 1909 Ole Evinrude presentava il suo primo fuoribordo, nasceva la rivista Motor Boating and Yachting e nel 1913 erano circa 100 mila gli americani utenti nautici.

Il cruiser medio americano era sui 45 piedi (quasi 14 metri), aveva un motore di circa 25 cavalli e uno scafo lungo e stretto. Il più rappresentativo era l’Elco Cruisette, lo costruiva la Elco Marine di Bayonne, New Jersey, che fu anche la prima ad aprire dei veri saloni di vendita sulla costa orientale degli Stati Uniti e, appena scoppiata la prima guerra mondiale, ricevette dalla Marina inglese un ordine per 580 motosiluranti di 24 metri di lunghezza e di 113 unità da parte della Regia Marina italiana. Ma alle vicende belliche e al loro influsso sullo sviluppo degli scafi veloci dedicheremo il prossimo articolo, adesso ci concentriamo sulla nautica da diporto e i suoi risvolti agonistici.  

Alla ricerca della planata si cambiano le forme dello scafo

Tutte le barche di cui si è parlato finora erano lunghe e strette perché gli studi e le esperienze compiute a cavallo del secolo davano questo come unico elemento certo nell’architettura navale: più una barca era lunga e stretta, più guadagnava in velocità, la regola di uno scafo dislocante. Ecco perché la larghezza era inferiore ai tre metri su scafi di 18 metri.

Il Turbinia di fine Ottocento proponeva barche lunghe e strette, ma con la novità della poppa allargata e appiattita.

Le prime esperienze a velocità di circa 15 nodi avevano infatti messo in luce lo “sprofondamento” della sezione poppiera perché, si pensava, che l’acqua mossa dall’elica offriva meno appoggio. Quindi, per trovare più “portanza” (un neologismo per allora) si cominciarono ad appiattire le poppe. Però, più le velocità aumentavano e più apparivano altri difetti: per esempio, la prua alzava due grandi baffi che ricadevano sulla coperta, ecco allora le prime prue svasate. Ma in realtà il problema principale restavano i motori: la loro potenza, efficienza e quindi il peso e l’ingombro ma, soprattutto se l’obiettivo era l’affidabilità, davano riscontri disastrosi.

Con gli idroplani finalmente si "vola"

Dobbiamo aspettare William Henry Fauber, un franco-americano che registrò nove brevetti tra il 1900 e il 1909 riguardanti quelli che allora vennero chiamati “idroplani”, cioè scafi plananti (sotto, i disegni).

Si trattava di imbarcazioni dotate di carene con gradini angolati sul fondo: una volta lanciato, lo scafo avrebbe toccato l’acqua solo con una ristretta porzione della sua superficie, creando meno resistenza e senza sollevare onde. La carena di Fauber prevedeva diversi gradini variamente angolati e da essa presero spunto altri progettisti: qualcuno ne adottò cinque anziché otto, altri due, altri ancora uno solo. E ancora, alcuni fecero barche a fondo piatto e altri angolarono trasversalmente il fondo per una migliore tenuta in mare.

Ma il problema restavano sempre i motori: non ce n’erano in grado di far planare grandi barche e quindi si poterono fare solo dei tentativi con piccoli scafi. Anche per questo lo sviluppo di scafi veloci capaci di navigare in mare aperto restò predominio esclusivo dei militari, non solo per i problemi tecnici, ma anche per i costi.

Qualche innovazione tra le due guerre

Il primo conflitto mondiale contribuì, come vedremo nel prossimo articolo, a innescare qualche processo innovativo. Ma per il diporto si dovrà aspettare il 1936 perché la British Power Boat costruisse uno scafo a spigolo, ma senza gradini in carena, da 18 metri con tre motori a benzina Napier Lion da 600 cv l’uno: raggiunse i 33 nodi a pieno carico e i 37 nodi a vuoto. Nel 1937 la Vosper rispose con un altro scafo da 21 metri (sotto un modellino), anch’esso a spigolo e senza gradini, con tre Isotta Fraschini da 1.000 cv l’uno che sfiorò i 44 nodi. Nel 1938, ancora la British Power Boat allestì un altro scafo di 21 metri e tre motori Rolls-Royce da 1.000 cv l’uno che superò, anche se di poco, i 44 nodi.

A Miami tra record e contrabbandieri

Ma a quei tempi la gente comune o inseguiva record di velocità su acque interne o se ne andava per mare con cruiser da 10 nodi godendosi una tranquilla navigazione.

Nell’ambito agonistico in mare aperto c’è quindi da ricordare la sola Miami-New York, che però non fu mai una gara vera, ma un percorso fisso di oltre mille miglia sul quale in qualunque momento si poteva sfidare il cronometro per abbassare il record. Fu organizzata per la prima volta nel 1920 da Charles Chapman, fondatore e direttore della rivista americana Motor Boating. Insieme a Gar Wood (nella foto sotto e in quella di apertura) impiegò 47 ore e molti furono i tentativi di migliorare questo tempo che rimase imbattuto fino al 1963 quando Sam Griffith, l’ideatore dell’offshore moderno, riuscì ad abbassarlo.

Una citazione meriterebbero anche le gare “non ufficiali” tra la Guardia costiera americana e i contrabbandieri nel periodo del proibizionismo. I contrabbandieri disponevano di molte CMB (Coastal Motor Boat) barche militari inglesi della prima Guerra mondiale e la Guardia costiera dovette correre ai ripari.

Questa lotta produsse uno scafo famoso: a costruirlo fu Gar Wood su precisa richiesta dei contrabbandieri per andare più forte, lo chiamò Cigarette (nome poi ripreso da Don Aronow anni dopo). Lungo 21 metri, aveva cinque motori Liberty da 450 cv l’uno per una velocità di punta di 40 nodi e 30 nodi di crociera.


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Settanta anni dopo ancora le Bermuda

Le due guerre avevano dimostrato che alcune barche potevano gareggiare in mare aperto, ma per avere un riscontro diportistico dobbiamo aspettare gli anni Sessanta e un certo James Pearman, noleggiatore di barche alle Bermuda che, invece di spedire per nave il suo nuovo Bertram 38’ (nella foto sopra), decise di portarlo via mare da solo.

Partito dalla costa del North Carolina percorse le 600 miglia fino a Bermuda in 3 giorni e 5 ore, appena otto ore meno dell’Ailsa Craig di quasi 70 anni prima. Spinto da due diesel GM da 283 cv ognuno, questo Bertram venne però notevolmente ritardato da una burrasca, con onde di sei metri durante le quali la barca fu costretta a mettersi alla cappa. La barca non riportò nessun danno e dimostrò di avere un’autonomia più che sufficiente.

Clive Leisure, un altro noleggiatore, partì sempre dal North Carolina con un fisherman da 45 piedi sempre con due GM da 283 cv; impiegò 2 giorni e 10 ore e all’arrivo dichiarò: “avrei potuto metterci anche meno, ma ero solo, non in gara e non sapevo esattamente quanto consumasse la barca”. Nel 1972 sembrava quindi imminente una gara su questo percorso, ma la crisi petrolifera fece raffreddare gli entusiasmi.


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